LA  CORTE MILITARE DI APPELLO 
 
 
                            Prima sezione 
 
    Composta dai signori: 
        1. dott. Francesco Ufilugelli - Presidente; 
        2. dott. Gioacchino Tornatore - giudice estensore; 
        3. dott.ssa Maria Michela T. Mazzili - giudice; 
        4. T. Col. A.M. Fabio Genovese - giudice; 
        5. T. Col. E.I. Cosimo Lorusso - giudice. 
     Ha pronunciato in camera di consiglio la seguente ordinanza  nel
procedimento a carico di Pappalardo  Rosario,  nato  il  6.09.1966  a
Salerno; residente a Messina, piazza Masuccio n. 2; Ten. Col. E.I. in
servizio presso il Comando Brigata  Meccanizzata  «Aosta»;  assistito
dal difensore di fiducia avv. Filippo Alessi  del  Foro  di  Messina,
presso il quale ha eletto domicilio; 
    Parte civile costituita: Ten. Col.  E.I.  Salvatore  Di  Bartolo,
nato a Messina il 15.01.1970;  assistito  e  rappresentato  dall'avv.
Sebastiano Ghirlanda del Foro di Messina. 
    Imputato di «a) Ingiuria aggravata (articoli  226  codice  penale
militare di pace, 47  n.  2  codice  penale  militare  di  pace);  b)
Minaccia aggravata (articoli 229 comma 1 codice  penale  militare  di
pace, 47 n. 2 codice penale militare di pace); c) Minaccia  aggravata
(articoli 229 codice penale militare di pace, 47 n. 2  codice  penale
militare di pace». 
 
                               Osserva 
 
    I.  All'odierna  udienza  il  Procuratore  Generale  Militare  ha
chiesto, in via preliminare, che la Corte voglia sollevare  questione
di legittimita' costituzionale dell'art. 226 codice  penale  militare
di pace, con contrasto con gli articoli 3 e  52  della  Costituzione,
nella parte in cui sottopone a sanzione penale comportamenti posti in
essere al di fuori delle condizioni  previste  dall'art.  199  codice
penale militare di pace; nonche' dell'art. 1, lettera c), del decreto
legislativo  n.  7/2016,  nella  parte  in  cui   non   ha   previsto
l'abrogazione del reato di cui all'art. 226 codice penale militare di
pace qualora il fatto sia  commesso  al  di  fuori  delle  condizioni
previste dall'art. 199 codice penale militare di pace La parte civile
costituita si e' rimessa alle valutazioni della Corte.  Il  difensore
dell'imputato  si  e'  associato  alla  richiesta   del   Procuratore
generale. 
    II. Il  decreto  legislativo  15  gennaio  2016,  n.  7  recante:
«Disposizioni in materia di abrogazione di reati  e  introduzione  di
illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell'art.  2,  comma
3, della legge 28 aprile 2014, n. 67»  al  Capo  I,  «Abrogazione  di
reati e modifiche al codice penale», con  l'art.  1  «Abrogazione  di
reati», ha proceduto alla abrogazione, tra gli altri,  del  reato  di
«ingiuria», previsto dall'art. 594 codice penale. 
    Con il successivo art. 2, il citato decreto  legislativo  ha  poi
introdotto una serie di modifiche al codice penale e, per quel che ha
rilievo nel presente procedimento, in particolare al comma 1, lettera
g),  ha  stabilito  che  all'art.  596  codice  penale,   concernente
l'esclusione della prova liberatoria: 
        «1) al comma primo, le parole "dei delitti preveduti dai  due
articoli precedenti" sono sostituite  dalle  seguenti:  "dal  delitto
previsto dall'articolo precedente"; 
        2) al comma quarto, le parole  "applicabili  le  disposizioni
dell'art. 594, primo comma, ovvero dell'art. 595, primo  comma"  sono
sostituite dalle seguenti:  "applicabile  la  disposizione  dell'art.
595, primo comma": 
        al comma 1, lettera h), ha disposto che «all'art. 597,  comma
primo, le parole "I delitti preveduti dagli articoli 594 e  595  sono
punibili"  sono  sostituite  dalle  seguenti:  "Il  delitto  previsto
dall'art. 595 e' punibile"»; 
          al comma 1, lettera i) ha stabilito che «all'art.  599:  1)
la rubrica e' sostituita dalla seguente: "Provocazione."; 2) i  commi
primo e terzo sono abrogati; 
        3) nel secondo comma, le parole "dagli articoli 594  e"  sono
sostituite dalle seguenti: "dall'articolo"». 
    Il  Capo  II  del  decreto  legislativo  n.  7/2016,   denominato
«Illeciti sottoposti a sanzioni  pecuniarie  civili»,  nel  prevedere
all'art. 3 la «Responsabilita' civile per gli illeciti  sottoposti  a
sanzioni pecuniarie», ha, poi, disposto che: 
    «1. I fatti previsti dall'articolo seguente, se dolosi, obbligano
oltre che alle restituzioni e al risarcimento del  danno  secondo  le
leggi civili, anche al pagamento della sanzione pecuniaria civile ivi
stabilita. 
    2. Si osserva la disposizione di cui all'art. 2947, primo  comma,
del codice civile». 
    Con il successivo art. 4 del decreto si sono, quindi, individuati
gli «Illeciti civili  sottoposti  a  sanzioni  pecuniarie»  e  si  e'
stabilito che: 
    «1. Soggiace alla sanzione pecuniaria civile da euro cento a euro
ottomila: 
        a) chi offende l'onore o il decoro di una  persona  presente,
ovvero mediante comunicazione telegrafica, telefonica, informatica  o
telematica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa; 
        b), c), d), e), f) omissis; 
    2. Nel caso di cui alla lettera a) del primo comma, se le  offese
sono reciproche, il giudice puo' non applicare la sanzione pecuniaria
civile ad uno o ad entrambi gli offensori. 
    3. Non e' sanzionabile chi ha  commesso  il  fatto  previsto  dal
primo comma, lettera a), del presente  articolo,  nello  stato  d'ira
determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso». 
    Con l'art. 5 il decreto ha,  inoltre,  stabilito  i  «Criteri  di
commisurazione delle sanzioni pecuniarie», mentre nel successivo art.
6 si e' provveduto  a  fissare  i  criteri  temporali  relativi  alla
«Reiterazione dell'illecito». 
    Quando al procedimento,  l'art.  8  del  decreto  legislativo  n.
7/2016 ha disposto che le sanzioni pecuniarie civili  sono  applicate
dal giudice competente a conoscere dell'azione  di  risarcimento  del
danno e che il giudice decide sull'applicazione della sanzione civile
pecuniaria al termine del giudizio, qualora  accolga  la  domanda  di
risarcimento proposta dalla persona offesa; infine,  si  e'  previsto
che anche ai fini dell'irrogazione della sanzione pecuniaria  civile,
si applicano le disposizioni  del  codice  di  procedura  civile,  in
quanto compatibili con le norme del capo II. 
    Modalita' di  pagamento  della  sanzione  e  di  devoluzione  del
provento della stessa a favore della Cassa  delle  ammende,  Registro
informatizzato dei provvedimenti in materia di  sanzioni  pecuniarie,
seguono negli articoli finali (art. 9-11) del testo  del  decreto  in
esame, che si  conclude  con  l'art.  12  che  reca  le  disposizioni
transitorie, in pratica attuative dei principi  vigenti  in  tema  di
successione di leggi penali, specificatamente  di  quello  del  favor
rei, in quanto stabilisce che:  «1.  Le  disposizioni  relative  alle
sanzioni pecuniarie civili del presente decreto si applicano anche ai
fatti commessi anteriormente alla data di  entrata  in  vigore  dello
stesso, salvo che il  procedimento  penale  sia  stato  definito  con
sentenza o con decreto divenuti irrevocabili. 
    2. Se i procedimenti penali per i  reati  abrogati  dal  presente
decreto sono stati definiti, prima della sua entrata in  vigore,  con
sentenza   di   condanna   o   decreto   irrevocabili,   il   giudice
dell'esecuzione revoca la sentenza o il decreto, dichiarando  che  il
fatto non e' previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti
conseguenti. Il giudice  dell'esecuzione  provvede  con  l'osservanza
delle disposizioni dell'art. 667, comma 4, del  codice  di  procedura
penale». 
    Seguono, all'art.  13  del  decreto  legislativo  n.  7/2016,  le
disposizioni finanziarie. 
    III. Dunque, con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale n.  17
del 22 gennaio 2016 del decreto legislativo n. 7 del 2016, e' entrato
in  vigore,  a  decorrere  dal  6  febbraio  2016,  l'intervento   di
depenalizzazione e di abrogazione di reati oggetto della legge delega
n. 67/2014 (art. 2). Sempre  in  attuazione  della  legge  delega  n.
67/2014, inoltre, con il successivo decreto legislativo n. 8/2016  si
e' completata la depenalizzazione con la trasformazione  di  numerose
fattispecie di reati minori (per i quali e'  prevista  la  sola  pena
della multa o dell'ammenda oppure puniti  con  pene  detentive,  sole
congiunte   o   alternative   a   pene   pecuniarie)   in    illeciti
amministrativi. 
    Appare di tutta evidenza - ed e' stato esplicitamente evidenziato
nelle relazioni governative di accompagnamento agli  schemi  dei  due
decreti legislativi in questione  -  che  il  legislatore  ha  inteso
perseguire una scelta politica ben precisa, volta a  deflazionare  il
sistema penale,  sia  sostanziale  che  processuale,  in  omaggio  ai
principi di  frammentarieta',  offensivita'  e  sussidiarieta'  della
sanzione  criminale,  partendo  dal  presupposto  che   seppure   una
penalizzazione generalizzata formalmente corrisponda  a  esigenze  di
maggiore  repressivita',  tuttavia  in  concreto   finisce   con   il
risolversi in un abbassamento del livello di tutela  degli  interessi
coinvolti, dovendosi scontrare con il dato obiettivo che la  macchina
repressiva penale non e' attualmente in grado di sanzionare un numero
elevato di fatti, per cui appare doveroso valutare l'opportunita'  di
rinunciare alle sanzione penale quantomeno per i reati che presentino
un minor grado di offensivita'. 
    Il legislatore, con l'ultimo intervento di  depenalizzazione,  ha
fatto ricorso a  un  duplice  strumento,  da  un  lato  quello  della
trasformazione  di  taluni  reati  in  illecito  amministrativo,  con
conseguente affidamento esclusivo  all'autorita'  amministrativa  del
compito di punire determinate condotte di minore gravita'; dall'altro
lato, quello di abrogare alcune fattispecie  di  reato  previste  dal
codice penale, con contemporanea  sottoposizione  dei  corrispondenti
fatti a «sanzioni pecuniarie civili», che  vanno  ad  aggiungersi  al
risarcimento del danno conseguente alla condotta presa in esame. 
    Questo e' avvenuto, per quanto qui di  specifico  interesse,  con
riferimento al reato comune di ingiuria previsto  dall'art.  594  del
codice  penale,  che  ha,  quindi,  assunto  la  veste  di   illecito
sanzionato solo civilmente, oltre che con il risarcimento del danno -
di natura tipicamente privatistica e che si connota  per  un  profilo
squisitamente  ristoratorio  del  pregiudizio  cagionato  alla  parte
offesa - anche con una sanzione pecuniaria civile, che appare rifarsi
ai punitive damages di matrice anglosassone, in  uso  sopratutto  nel
sistema  statunitense  di  common  law,  che  mantiene  una  funzione
principalmente repressiva e afflittiva, e  che  viene  irrogata,  per
specifica scelta del legislatore, dal giudice civile e devoluta  alla
cassa delle ammende. A tale ultima sanzione, inoltre, si  applica  il
termine quinquennale di  prescrizione  della  pretesa  relativa  alla
inflizione della sanzione pecuniaria, come expressis verbis  previsto
dall'art. 3, comma 2, del decreto legislativo citato,  che  richiama,
infatti, il primo comma dell'art. 2947 del codice civile. 
    I reati oggetto di abrogazione - e tra questi quello di  ingiuria
di cui all'art. 594 codice penale - vengono, dunque,  trasformati  in
illeciti sottoposti a una sanzione pecuniaria civile, inedita per  il
nostro sistema giuridico, che, come gia' detto, si  connota  per  una
finalita' squisitamente preventiva e repressiva tipica delle sanzioni
di natura punitiva. Tale funzione risulta testimoniata dai principi e
dai criteri direttivi previsti per la commissurazione  della  entita'
della suddetta sanzione, indicati alla successiva lettera e), ove  si
prevede, infatti, che le  sanzioni  civili  siano  proporzionate  non
all'entita'  del  danno  conseguito  dalla  condotta,  quanto   «alla
gravita'   della   violazione,   alla   reiterazione   dell'illecito,
all'arricchimento  del  soggetto   responsabile,   all'opera   svolta
dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle  sue  conseguenze
nonche'  alla  personalita'  dello  stesso  e  alle  sue   condizioni
economiche». 
    Appare di tutta  evidenza,  quindi,  che  le  novita'  introdotte
dall'intervento normativa in esame determinano una rivalutazione  del
principio  di  offensivita'  da  considerarsi  immanente  nel  nostro
sistema penale, coerentemente con quanto  gia'  operato  dal  decreto
legislativo n. 28 del 16 marzo 2015,  che  ha  introdotto  l'istituto
della particolare tenuita' del fatto come causa di  esclusione  della
punibilita'  e  che,  come   pacificamente   ritenuto   anche   della
giurisprudenza della Corte suprema di cassazione, trova  applicazione
anche con riferimento ai reati militari, trattandosi di una  clausola
di esiguita' che determina una improcedibilita' di natura sostanziale
e processuale nei casi di concreta inoffensivita' di un fatto che pur
astrattamente mantiene la sua rilevanza penale. 
    I due interventi normativi in  questione  sul  piano  teorico  si
distinguono nettamente fra loro, dal momento che la  depenalizzazione
determina, a monte, l'espunzione di determinate condotte dal panorama
delle fattispecie penalmente rilevanti, a prescindere dalle  concrete
modalita' attraverso le  quali  le  stesse  vengono  realizzate;  con
l'istituto della tenuita' del  fatto,  invece  non  sono  considerati
punibili quei reati sanzionati, nel massimo, con la  pena  di  cinque
anni di reclusione o con la pena pecuniaria, solo ove in concreto  si
siano rivelati di scarsa offensivita'. Nel primo caso, quindi  e'  il
legislatore a stabilire a priori  quali  condotte  non  costituiscono
piu' reato; mentre, nella seconda ipotesi, il legislatore affida alla
sensibilita' e alla discrezionalita' del  giudice,  quale  interprete
del  diritto,  il  compito  di  valutare  il  concreto  se  il  fatto
sottoposto al suo esame non meriti di essere sanzionato,  verificando
se, per le concrete modalita' esecutive, per la occasionalita'  dello
stesso, per la tenuita' del pregiudizio  o  del  pericolo  cagionato,
appunto, abbia arrecato  un'offesa  troppo  lieve  per  meritare  una
risposta sanzionatoria penale. Come e' stato osservato, emtrambi  gli
istituti  corrispondono  all'esigenza  di  operare   una   scrematura
dell'area penale dai reati cosiddetti bagatellari, con la  differenza
che mentre un intervento di depenalizzazione e di abrogazione mira  a
colpire i cosiddetti reati bagatellari propri, valutati  cioe'  dello
stesso legislatore come ormai privi di offensivita', la tenuita'  del
fatto ha come obbiettivo, invece, i reati bagatellari impropri, cioe'
quelle condotte che astrattamente  presentano  profili  di  rilevanza
penale e di offensivita', ma che in concreto hanno arrecato un'offesa
esigua, tale da far  venir  meno  l'interesse  statuale  a  una  loro
repressione penale, tramite il meccanismo deflattivo della diversion. 
    IV. Come gia' anticipato, il legislatore delegato, con l'art.  1,
lettera c), del decreto legislativo n. 7 del 2016  ha  abrogato,  tra
gli altri, anche il reato comune di ingiuria, in  ossequio  a  quanto
prescritto dall'art. 2, comma 3, lettera a), numero 2, della legge n.
67 del  2014,  che  prescriveva  l'abrogazione  del  delitto  di  cui
all'art. 594 del codice penale. 
    La tecnica utilizzata dalle legislatore nell'operare l'intervento
abrogativo, mediante  richiamo  espresso  e  tassativo  dell'articolo
specifico del codice penale che prevede  la  singola  fattispecie  di
reato sulla quale egli ha inteso intervenire, senza  alcuna  menzione
del relativo nomen iuris, consente di  sgombrare  definitivamente  il
campo -  per  quanto  qui  di  specifico  interesse  -  da  qualsiasi
possibilita' di considerare coinvolta e travolta da  tale  intervento
di depenalizzazione anche la corrispondente fattispecie di  reato  di
ingiuria prevista dal codice penale militare di  pace  all'art.  226.
Non appare, infatti, possibile estendere la depenalizzazione  operata
dal  legislatore  con  la  novella  anche  a  tale  reato   militare,
attraverso   un'attivita'   di   interpretazione   costituzionalmente
orientata, in particolare di applicazione analogica in  bonam  partem
della normativa abrogata, proprio  in  considerazione  del  carattere
tassativo dei delitti specificamente indicata dal decreto legislativo
in esame, dal quale obiettivamente emerge la volonta' del legislatore
di riferirsi alla fattispecie di reato comune  contemplata  dall'art.
594 del codice penale e non anche  all'omologo  e  omonimo  reato  di
ingiuria militare previsto all'art. 226 del codice penale militare di
pace. 
    Del resto, secondo  l'insegnamento  costante  del  Giudice  delle
leggi, «le valutazioni di politica criminale competono esclusivamente
al legislatore»,  mentre  le  «sperequazioni»  normative  tra  figure
omogenee di  reato  determinano  necessariamente  l'intervento  della
Corte costituzionale solo se assumono aspetti e  dimensioni  tali  da
non  potersi  considerare  come  sorrette   da   alcuna   ragionevole
giustificazione (ex multis, sentenza 25 luglio 1997 n. 272). 
    Peraltro, al giudice di merito non e' richiesto di spingersi fino
alla valutazione della incostituzionalita' della norma da applicarsi,
compito da riservarsi evidentemente al Giudice delle leggi, e neanche
esprimere  un  positivo  e  diffuso  convincimento  nel  senso  della
fondatezza  della  questione  prospettata,  essendo  sufficiente   il
sorgere anche di un mero dubbio sulla costituzionalita'  della  norma
impugnata, in termini di non manifesta infondatezza.  Ne'  lo  stesso
giudice di merito, a fronte di una tale delibazione, potrebbe  optare
per disapplicazione della norma  sospettata  di  incostituzionalita',
poiche' una tale  soluzione  si  profilerebbe,  per  un  verso,  come
provvedimento  abnorme  in  considerazione  della  gia'   evidenziata
tassativita' della elencazione legislativa, come  gia'  stigmatizzato
dalla Consulta, secondo  la  quale  di  giudici  devono  limitarsi  a
esercitare  il  loro  potere  di  verificare  quale  legge  si  debba
applicare nel caso concreto e ad interpretare la legge stessa, ma non
possono «espressamente disapplica[re le] leggi  ...,  con  violazione
degli articoli 101, 117 e 134  della  Costituzione»  (sentenza  Corte
costituzionale n. 285 dell'11-14  giugno  1990);  e  lascerebbe,  per
altro aspetto, irrisolti  anche  i  problemi  connessi  ai  giudicati
pregressi (che per quanto concerne la abrogazione del reato comune di
ingiuria, il legislatore ha espressamente disciplinato  all'art.  12,
comma 2, del decreto legislativo n. 7 del 2016). 
    Nel caso di specie, questa Corte ritiene che il presente giudizio
non  possa  essere   definito   prescindendo   dalla   questione   di
legittimita' costituzionale  riguardante  l'art.  226  codice  penale
militare di pace, palesandosi  la  stessa  come  «rilevante»  e  «non
manifestamente infondata». 
    Peraltro, la circostanza che i contestati  reati  di  ingiuria  e
minaccia di cui ai primi due capi di imputazione si  siano  consumati
in un medesimo ambito spazio-temporale e nell'evolversi della  accesa
discussione intercorsa tra l'imputato e la  persona  offesa  in  quel
contesto; e che anche l'ulteriore  condotta  minatoria  descritta  al
capo  c)  dell'imputazione  si  colloca  nell'ambito   degli   stessi
deteriorati rapporti personali intercorrenti tra i protagonisti della
vicenda e trova origine,  quale  causa  immediata  e  recondita,  nei
precedenti screzi intercorsi tra i  due  soggetti  in  questione  con
riferimento  a  vicende  di   natura   condominiale;   determina   la
necessita', ad avviso di questa Corte, di  una  valutazione  unitaria
delle  condotte  poste  in  essere  dall'imputato,  per  cui   appare
opportuno non procedere a norma dell'art. 18  lettera  c)  codice  di
procedura penale, pronunciando ordinanza di separazione del  processo
mediante stralcio dell'imputazione di minaccia, ritenendo la riunione
assolutamente necessaria per l'accertamento dei fatti di causa. 
    V. In ordine all'aspetto della  rilevanza  deve  osservarsi  che,
sulla della descrizione della condotta contenuta nel capo imputazione
e  di  quanto  emerge  dal   materiale   probatorio   documentale   e
testimoniale  acquisito  nel  giudizio   di   primo   grado,   appare
astrattamente corretta e condivisibile  la  qualificazione  giuridica
del fatto di cui al capo a) quale reato militare  di  ingiuria  e  il
conseguente inquadramento dello stesso sotto la  fattispecie  di  cui
all'art. 226 del codice penale militare di pace. In particolare,  pur
ricorrendo una diversita' di grado  tra  il  soggetto  indicato  come
autore della condotta e la persona offesa attinta dalla  stessa,  non
appare  sussistente  alcuno  degli  elementi  negativamente  indicati
dall'art.  199  codice  penale  militare  di  pace,  con  conseguente
esclusione della applicabilita', nel caso in esame, della fattispecie
di reato di ingiuria ad inferiore, inquadrata dal legislatore sotto i
reati contro la disciplina militare. In particolare, risulta evidente
che il fatto e' stato commesso da un  militare  non  impegnato  nello
svolgimento di uno specifico servizio,  ne'  alla  presenza  di  piu'
militari riuniti per servizio, ne', evidentemente,  a  bordo  di  una
nave o di un aeromobile militare. E ancora, che lo stesso fatto,  per
le modalita' di estrinsecazione della condotta e  per  gli  immediati
antecedenti causali e occasionali che hanno caratterizzato la stessa,
non presenta alcun profilo  di  connessione  con  il  servizio  e  la
disciplina militare. 
    Dall'imputazione risulta, infatti, che l'imputato avrebbe rivolto
la frase offensiva nei confronti del maggiore,  in  occasione  di  un
acceso scambio di battute intervenuto mentre il primo si trovava  nel
cortile condominiale con la sua cagnolina, e la  persona  offesa  era
affacciata alla finestra del bagno del proprio appartamento, posto al
primo piano di uno dei fabbricati prospicienti  al  cortile.  Appare,
inoltre, evidente che la causa scatenante la discussione in questione
sia da  individuarsi  nell'ambito  dei  rapporti  di  vicinato  e  di
condivisione condominiale, sia pure  relativa  ad  alloggi  militari,
intercorrenti  tra  i  due  protagonisti  della  vicenda.  Lo  stesso
Tribunale  riteneva,  preliminarmente,  doveroso  precisare   che   i
rapporti tra i due militari «...  pur  abitando  gli  stessi  in  due
appartamenti attigui, erano "freddi" e che nel periodo immediatamente
precedente ai fatti in contestazione erano peggiorati a  causa  delle
lamentele del  maggiore  al  responsabile  del  condominio  circa  la
gestione del cane da parte del tenente colonnello». Appare  evidente,
quindi, che il fatto contestato risulta inquadrabile e  riconducibile
a un contesto squisitamente personale e privato che non  trova  alcun
addentellato con questioni attinenti al servizio  e  alla  disciplina
militare.  Se  cio',  come  gia'   detto,   consente   di   escludere
l'applicabilita' dei reati militari contro  la  disciplina  militare,
non priva, tuttavia, il fatto  in  questione  di  una  sua  rilevanza
penale militare che, per quanto riguarda specificamente  la  condotta
ingiuriosa qui oggetto di interesse, e' da  ricondursi  proprio  alla
previsione normativa di cui all'art. 226 del codice  penale  militare
di pace,  sotto  il  quale,  per  la  inequivoca  formulazione  della
fattispecie ad opera del legislatore, sicuramente  possono  rientrare
anche condotte di natura ingiuriosa del tutto  esulanti  dalla  sfera
del servizio e della disciplina militare, alla  sola  condizione  che
siano tenute da un soggetto che rivesta la qualita' di  militare,  ai
danni di un appartenente al medesimo  consorzio,  in  cio'  potendosi
esaurire,  in  definitiva,  la  connotazione  di  militarita'   della
fattispecie in esame. In tal  senso  depone  l'interpretazione  della
norma  univocamente   affermatasi   presso   la   giurisprudenza   di
legittimita', ove si e' ripetutamente affermato che «... i  fatti  di
violenza, minaccia e ingiuria commessi tra militari non  integrano  i
reati di cui agli articoli 195 e 196 codice penale militare di  pace,
allorche' risultino collegati in modo del tutto  estrinseco  all'area
degli interessi connessi alla tutela del servizio e della disciplina,
ponendosi con questi in rapporto di semplice occassionalita', a nulla
rilevando che essi si  siano  svolti  all'interno  di  una  struttura
militare, risolvendosi, diversamente, tale circostanza nella indebita
valorizzazione di una mera coincidenza topografica, in contrasto  con
la sentenza  17  gennaio  1991  n.  22  della  Corte  costituzionale,
dichiarativa dell'illegittimita' costituzionale dell'art. 199  stesso
codice limitatamente alle parole «o in luoghi militari». (Fattispecie
relativa a percosse e minacce commesse, nell'ufficio di una scuola di
fanteria dell'esercito, da un ufficiale  in  danno  di  un  fante,  a
conclusione di una conversazione privata» (Cass.  Sez.  I,  n.  41703
dell'8 ottobre  2002);  ed  ancora  che  «l'offesa  all'onore  di  un
inferiore (art. 196 codice penale  militare  di  pace),  rivolta  dal
militare appartenente alle Forze armate al di fuori dell'attivita' di
servizio  attivo  e  non  obiettivamente  correlata  all'area   degli
interessi  connessi  alla  tutela  della  disciplina,  rientra  nella
clausola di esclusione del reato di ingiuria ad  inferiore,  prevista
dall'art. 199 codice penale militare  di  pace  («cause  estranee  al
servizio e alla disciplina militare»). (Fattispecie  relativa  ad  un
tenente dell'Esercito  italiano  che,  in  abiti  civili,  profferiva
parole ingiuriose nei confronti dei militari della Guardia di finanza
che lo avevano fermato per contestargli alcune infrazioni  al  Codice
della strada)» (Cass. Sez. I, n. 19425 del 5 maggio 2008; e, in senso
conforme, Cass. Sez. I, n. 8495 del 28 settembre 2012). 
    Non appare, quindi, possibile  procedere  a  una  interpretazione
della  norma  che  -  avuto  presente  il  nuovo   quadro   normativo
conseguente all'abrogazione dell'art. 594 codice penale - consenta di
conformare la fattispecie  dell'ingiuria  militare  al  rispetto  dei
precetti costituzionali, in  particolare  restringendo  il  campo  di
applicazione di tale previsione ai soli fatti che presentino  profili
di attinenza con il servizio e la  disciplina  militare  o,  piu'  in
generale, con interessi militari, e con esclusione, invece, di  tutte
le condotte ingiuriose che, pur essendo intervenute tra soggetti  che
rivestono  lo  status  di  militare,  si   caratterizzano   per   una
connotazione di natura squisitamente personale e  privata.  Solo  una
tale interpretazione adeguatrice, che pero' - si ribadisce -  non  e'
consentita  dal  tenore   letterale   della   norma   incriminatrice,
consentirebbe di eliminare quella disparita' di trattamento giuridico
che, all'indomani dell'abrogazione del reato comune  di  ingiuria  ad
opera del legislatore, si e' venuta a  determinare  -  ad  avviso  di
questo giudice -  tra  i  soggetti  in  armi  e  quelli  estranei  al
consorzio militare. Non appare quindi, possibile, nel caso in  esame,
accogliere  l'invito  a  percorrere  la  strada  dell'interpretazione
conforme a Costituzione, in numerose  pronunce  rivolto  dal  Giudice
delle leggi ai giudici di merito, affinche' gli stessi,  nell'operare
la  ricognizione  del  contenuto  normativo  della  disposizione   da
applicarsi, siano costantemente ispirati  dall'esigenza  di  rispetto
dei precetti costituzionali e quindi, ove  un'interpretazione  appaia
confliggente con alcuno di essi, si  risolvano  ad  adottare  letture
alternative  maggiormente  aderenti   al   parametro   costituzionale
altrimenti vulnerato (vds., al riguardo Corte cost., sent. n. 149 del
1994). 
    In definitiva, come gia' in precedenza si e'  evidenziato,  dallo
stesso capo  di  imputazione  elevato  nei  confronti  dell'imputato,
nonche' dall'esame del complessivo materiale probatorio,  emerge  per
tabulas  che  la  fattispecie  denunciata  debba   essere   applicata
necessariamente ai fini della decisione, non  trattandosi,  pertanto,
di una prospettazione meramente ipotetica e astratta. 
    La pregiudizialita' necessaria di tale questione di  legittimita'
costituzionale rispetto alla decisione  del  giudizio  a  quo  appare
evidente, investendo il dubbio di conformita' alla  Costituzione  una
disposizione penale che questo Giudice e' chiamato ad  applicare  per
la prosecuzione e/o la definizione del giudizio. 
    Emergendo chiaramente, per quanto sopra descritto,  la  rilevanza
nel caso di specie della questione  di  legittimita'  costituzionale,
alla stessa deve accordarsi,  peraltro,  precedenza,  non  risultando
altre  questioni,  prospettate  nell'atto  di  appello  proposto  dal
difensore dell'imputato o rilevabili ex officio  da  questo  giudice,
che presentino un carattere  di  preordinazione  o  pari  ordinazione
rispetto alla stessa. 
    Infine,  come  gia'  evidenziato  al  paragrafo  precedente,   la
sospensione del procedimento per la imputazione di ingiuria non viene
nella specie a costituire causa  di  separazione  relativamente  alle
ulteriori contestazioni di minaccia. 
    VI.  L'intervento  abrogativo  del  delitto  di  ingiuria  comune
operato dal legislatore ha indubbiamente determinato, quale ulteriore
e indiretta conseguenza, l'inquadramento della residua fattispecie di
reato militare di ingiuria tra i reati «esclusivamente militari», dal
momento  che  esso  risulta  attualmente   costituito,   secondo   la
definizione fornita dall'art. 37, comma 2, codice penale militare  di
pace «da un fatto che nei suoi elementi materiali  costituitivi,  non
e', in tutto in  parte,  preveduto  come  reato  dalla  legge  penale
comune». 
    Se e' vero, come e' stato riconosciuto  da  autorevole  dottrina,
che  la  nozione  di  reato  militare   presenta   una   connotazione
squisitamente formale, dovendosi considerare reato militare,  secondo
quanto previsto dall'art. 37, comma  1,  codice  penale  militare  di
pace, «qualunque violazione della legge penale  militare»,  tuttavia,
alla luce delle pronunce del Giudice  delle  leggi  e  di  quello  di
legittimita', non puo' revocarsi in  dubbio  che  «perche'  si  abbia
reato militare occorre che si tratti di un fatto che sia offensivo di
un interesse militare e che sia previsto dalla legge penale militare»
(Cass. Pen, Sez. I, 22 settembre 2009, n. 759; sul punto anche  Corte
costituzionale, 6 luglio 1995, n. 298, che ha definito  inammissibile
la questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  37  codice
penale  militare  di  pace,  confermando  l'adozione  da  parte   del
legislatore di un criterio meramente formale per definire la  nozione
di reato militare). 
    In  conseguenza  della  depenalizzazione  del  reato  comune   di
ingiuria,  determinata  dall'art.  1,   lettera   c),   del   decreto
legislativo n.  7/2016,  l'omologa  fattispecie  di  reato  militare,
ricomprendendo  fatti  potenzialmente  estranei  alla  tutela   degli
interessi militari, difettando per il reato in  questione  una  norma
equivalente a quella contenuta nell'art. 199 codice  penale  militare
di pace, introduce una disparita' di  trattamento  dei  cittadini  in
armi imputati di ingiuria, rispetto ai soggetti non appartenenti alle
Forze Armate che si  rendano  protagonisti  delle  medesime  condotte
ingiuriose ma che, d'ora innanzi, saranno soggetti  esclusivamente  a
una  sanzione  pecuniaria  civile.  Tale  disparita'  si  palesa   in
contrasto col  principio  di  ragionevolezza,  risultando  del  tutto
ingiustificata perche' finisce con il riservare al militare  soggetto
a un reato esclusivamente militare un trattamento immotivatamente ben
piu' gravatorio rispetto a quello  previsto  per  gli  estranei  alle
Forze armate. La stessa, peraltro, non puo'  trovare  giustificazione
neanche in base alla ratio ravvisata dalla Corte  costituzionale,  la
quale,  nel  pronunciarsi  in  ordine  al  giudizio  di  legittimita'
costituzionale degli articoli 226 e 229  codice  penale  militare  di
pace,  in  relazione  all'art.  260  dello  stesso  codice,  ebbe  ad
affermare  che  la  questione  sollevata  non  poteva  ritenersi   in
contrasto «con il principio informatore dell'ordinamento delle  forze
armate - identificato dall'art. 52, terzo comma,  della  Costituzione
nello spirito democratico della Repubblica -  trattandosi  di  scelta
che mira ad adeguare al caso concreto  la  risposta  dell'ordinamento
militare», non essendo, secondo la stessa Corte, neppure «ravvisabile
una lesione del principio di uguaglianza, in quanto la diversita'  di
trattamento rilevata dal giudice a quo  trova  giustificazione  nella
peculiare posizione del cittadino inserito nell'ordinamento  militare
- caratterizzato da specifiche regole di natura cogente - rispetto  a
quella della generalita' dei cittadini» (Corte  Cost.,  ordinanza  n.
186 del 4 giugno 2001). L'ordinanza in questione e'  stata,  infatti,
successivamente  precisata  dalla  stessa  Consulta,  sostanzialmente
nell'esercizio  di  una  attivita'  di   interpretazione   autentica,
allorquando, con la sentenza numero 273 del 19-29 ottobre  2009,  con
la  quale  e'  stata   dichiarata   l'illegittimita'   costituzionale
dell'art. 227 del codice penale militare di pace nella parte  in  cui
non  prevedeva  l'applicabilita'  della  prova  liberatoria  prevista
dall'art.  596  del  codice  penale,  ebbe  modo  di   affermare,   a
giustificazione della ravvisata  legittimita'  dell'esclusione  della
procedibilita' a querela  della  persona  offesa  per  i  delitti  di
ingiuria   e   diffamazione   militare   e   della   loro   esclusiva
subordinazione alla richiesta di procedimento da parte del comandante
di corpo, che «... nei reati militari [e'] sempre  insita  "un'offesa
alla disciplina e al servizio, una lesione  quindi  di  un  interesse
eminentemente pubblico che non tollera  subordinazione  all'interesse
privato caratteristico della querela":  presupposto  sulla  base  del
quale "si e'  preferito  attribuire  al  comandante  del  corpo,  con
l'istituto della richiesta" una facolta' di scelta tra l'adozione  di
provvedimenti di natura  disciplinare  ed  il  ricorso  all'ordinaria
azione penale». Il principio in questione veniva in  quella  ipotesi,
pero',  riferito  dalla  Corte  alla  previsione  di  due  differenti
condizioni di procedibilita' penale, che distinguevano la particolare
posizione del cittadino sub  signis,  con  riferimento,  tuttavia,  a
fatti da considerarsi, in entrambi i casi,  penalmente  rilevanti.  A
seguito, invece, della depenalizzazione del reato comune di ingiuria,
si e' venuta a determinare  una  disparita'  di  trattamento  tra  il
cittadino in armi e quello comune, in base  alla  quale  soltanto  il
primo viene a ricevere un trattamento sanzionatorio di natura  penale
nei casi  di  condotte  ingiuriose  tenute  nei  confronti  di  altro
militare che non  presentino  alcuna  connessione  con  interessi  di
natura militare. Ne' a giustificazione di tale deteriore risposta  da
parte dell'ordinamento giuridico puo' farsi  richiamo  a  un  preteso
maggiore disvalore caratterizzante la  condotta  in  tali  casi,  dal
momento che la pena  edittale  prevista  per  il  reato  militare  di
ingiuria si presentava meno grave (reclusione militare fino a quattro
mesi) rispetto alla sanzione del corrispondente  reato  comune  ormai
abrogato (reclusione nel massimo fino a sei mesi,  oltre  alla  multa
fino a euro 516,00). Nella  stessa  relazione  definitiva  ai  codici
penali militari, a proposito del raffronto delle «gravita'» delle due
fattispecie di reato in esame, si diceva che «gli articoli 226,  227,
228 del codice concernono i reati di ingiuria e di diffamazione. Sono
state  tenute  presenti,  nella  formulazione   degli   articoli   le
corrispondenti norme della legge penale comune, stabilendosi peraltro
una diminuzione delle pene giustificata dalle particolari  condizioni
con cui si svolge la convivenza  militare,  per  cui  taluni  episodi
possono considerarsi  come  manifestazioni  di  esuberanza  giovanile
anziche' di pravi sentimenti». 
    In definitiva, appare indiscutibile, in considerazione del tenore
letterale delle rispettive fattispecie incriminatici, e alla luce dei
parametri interpretativi al riguardo forniti dalla giurisprudenza  di
merito e di legittimita', che il reato  militare  di  ingiuria  abbia
mutuato il nucleo essenziale della condotta che intende  prevedere  e
reprimere, dall'ormai abrogato delitto comune di ingiuria, del  quale
costituiva fino ad oggi una sostanziale duplicazione, sia per  quanto
riguarda il profilo oggettivo, sia per quello  psicologico  del  dolo
generico richiesto,  salvo  diversificarsene  esclusivamente  per  il
requisito della qualita' di militare dei soggetti  attivo  e  passivo
del reato. Ne derivava la sussistenza di un rapporto  di  specialita'
tra le due fattispecie incriminatici,  del  tutto  analogo  a  quello
affermato dalla  stessa  Corte  costituzionale  con  la  sentenza  n.
273/2009, con riferimento al reato militare di diffamazione  rispetto
a quello comune di cui all'art. 595 codice penale, per  cui  «...  le
due fattispecie poste a raffronto, diffamazione  militare  (art.  227
codice penale militare di pace) e  diffamazione  "comune"  (art.  595
codice penale), presenta[vano] una piena equivalenza sul terreno  sia
della condotta tipica, sia dell'oggettivita' giuridica del reato.  La
diffamazione militare si pone[va] in rapporto di specialita'  con  il
corrispondente delitto previsto  dal  codice  penale,  distinguendosi
unicamente per la  qualita'  del  soggetto  attivo  e  della  persona
offesa,  che  devono  essere  entrambi  militari,   restando   invece
identica, sotto il profilo testuale, la descrizione della fattispecie
base delle due norme  incriminatrici,  vale  a  dire  l'offesa  della
altrui reputazione  nella  comunicazione  con  piu'  persone»  (Corte
Cost., sentenza del 19-29 ottobre 2009, n. 273). 
    Deve, quindi, concludersi, data la assoluta  equivalenza  tra  le
due fattispecie, sia sul piano della condotta tipica  che  su  quello
del bene giuridico oggetto di tutela,  che  l'attuale  disparita'  di
trattamento venutasi a determinare con riferimento alle  condotta  di
ingiuria,  quando  posta  in  essere  da  un  cittadino  comune,  con
conseguente risposta sanzionatoria solo di  natura  civile  da  parte
dell'ordinamento, rispetto a quando commessa da un militare ai  danni
di altro commilitone, con trattamento sanzionatorio penale, privativo
della liberta' personale, appare del tatto  ingiustificata  sotto  il
profilo della ragionevolezza e si pone in insanabile contrasto con il
principio di eguaglianza di tutti i cittadini, proclamato dall'art. 3
della Carta costituzionale, nei casi in  cui  la  condotta  posta  in
essere non presenti alcun  profilo  di  attinenza  con  interessi  di
natura militare, se non per  il  solo  fatto  dell'appartenenza  alle
Forze Armate dei soggetti attivo e passivo della condotta stessa. 
    Come gia'  sopra  evidenziato,  attesa  l'impossibilita'  per  il
giudice di operare  una  distinzione,  nell'ambito  della  previsione
generale di cui all'art. 226 del codice penale militare di pace,  tra
le condotte di  ingiuria  che  presentano  profili  di  attinenza  al
servizio  o  alla  disciplina  militare  o,  piu'  in  generale,   di
connessione con interessi di natura militare, rispetto a condotte che
non presentino una tale colorazione, si palesa, nell'attuale  assetto
normativo, uno stridente trattamento  discriminatorio  tra  i  comuni
cittadini e quelli in armi, essendo  questi  ultimi  attualmente  gli
unici chiamati a dover rispondere penalmente di condotte  di  valenza
ingiuriosa poste in essere nei confronti di propri commilitoni.  Tale
evidente contrasto appare ingiustificato  e  induce  a  ravvisare  un
vizio di costituzionalita' della norma penale militare che prevede il
delitto di ingiuria, nelle ipotesi in cui la condotta, come nel  caso
in esame, non presenti alcun profilo  di  connessione  con  interessi
militari, se non per la mera appartenenza al consorzio militare  dei,
protagonisti  attivo  e  passivo  della  vicenda.  In  tali  ipotesi,
infatti, non e' possibile cogliere alcun tratto differenziale con  la
fattispecie che la novella  ha  inteso  escludere  dall'ambito  della
rilevanza  penale,  per  affidarla  a  una  tutela  da  svolgersi  ed
esaurirsi tutta in ambito civilistico. 
    Siffatta situazione,  come  gia'  detto,  ricorre  nel  caso  che
costituisce oggetto del  presente  giudizio,  dato  che  la  condotta
ingiuriosa che viene ascritta all'imputato,  secondo  la  descrizione
fornitane dalla  pubblica  accusa,  non  presenta  alcun  profilo  di
connessione  con  interessi  militari,  ne'  di  riconducibilita'  al
servizio o alla disciplina militare, essendo  stato  il  protagonista
attivo  della  vicenda  libero  dal  servizio,  non  risultando  aver
assistito all'episodio in questione altri militari oltre alla persona
offesa ed essendo evidentemente riconducibile il fatto a  discussioni
di natura esclusivamente personale  e  privata;  di  talche',  appare
evidente e inaccettabile la disparita' di trattamento rispetto  a  un
comune  soggetto  al  quale  venisse  ascritta  la  stessa   condotta
addebitata all'imputato, in palese  contrasto  con  il  principio  di
uguaglianza tra cittadini. 
    Non pare, invece, potersi accogliere la prospettazione effettuata
dal P.G.M. nel sollevare la questione di legittimita' costituzionale,
secondo la quale quest'ultima investirebbe non solo l'art. 226 codice
penale militare di pace, per contrasto con gli articoli 3 e 52  della
Costituzione,  nella  parte  in  cui  sottopone  a  sanzione   penale
comportamenti posti in essere al di fuori delle  condizioni  previste
dall'art. 199 codice penale militare di  pace,  ma  anche  l'art.  1,
lettera c), del decreto legislativo n. 7/2016, nella parte in cui non
ha previsto l'abrogazione del reato di cui all'art. 226 codice penale
militare di pace qualora il fatto sia  commesso  al  di  fuori  delle
condizioni previste dall'art. 199 codice penale militare di pace 
    Al riguardo deve, infatti, osservarsi che la norma con  la  quale
il legislatore ha disposto la abrogazione del reato di  cui  all'art.
594 codice penale  non  presenta,  in  se'  considerata,  profili  di
contrasto con i dettami della Carta costituzionale e non  costituisce
oggetto di applicazione diretta e immediata da parte di questa  Corte
nel presente giudizio. Tale norma, piuttosto,  si  pone  quale  causa
primigenia dell'introduzione nell'ordinamento penale complessivamente
considerato di un ingiustificato trattamento discriminatorio  tra  il
cittadino comune e quello in anni che si rendano responsabili di  una
condotta ingiuriosa nei termini gia' precisati da questa  Corte;  con
conseguente   evidenziazione    di    profili    di    illegittimita'
costituzionale della fattispecie che attualmente prevede e punisce il
reato militare di ingiuria e che costituisce, questa si', oggetto  di
concreta e diretta applicazione, nel caso  di  specie,  da  parte  di
questo Giudice e che con la presente ordinanza si intende denunciare. 
    In conclusione, ai fini della corretta individuazione  del  thema
decidendum da offrirsi alla  valutazione  del  Giudice  delle  leggi,
questa Corte ritiene di dover indicare l'art. 226 del  codice  penale
militare di pace - che, per le ragioni in precedenza  espresse,  deve
trovare applicazione nel presente giudizio - come norma che  si  pone
in contrasto, alla luce  del  criterio  di  ragionevolezza,  con  gli
articoli  3  e  52  della  Carta  costituzionale,  i  quali  sono  da
assumersi, quindi, quali parametro di  costituzionalita';  violazione
determinatasi a seguito dell'entrata in vigore dell'art.  1,  lettera
c), del decreto legislativo n. 7 del 2016 - costituente,  quindi,  il
tertium comparationis - che ha  disposto  la  abrogazione  del  reato
comune di ingiuria  di  cui  all'art.  594  del  codice  penale,  non
prevedendo,   ingiustificatamente,    analoga    abrogazione    anche
dell'omonimo reato militare di ingiuria,  contemplato  dall'art.  226
codice penale militare di pace, nelle  distinte  ipotesi  come  sopra
delineate e,  in  particolare,  nei  casi  in  cui  la  condotta  ivi
descritta non presenti alcun profilo di attinenza con il servizio e/o
la disciplina militare o, pii in generale, con  interessi  di  natura
militare. Si invoca,  pertanto,  la  declaratoria  di  illegittimita'
costituzionale dell'art. 226 codice penale militare  di  pace,  nella
parte in cui se ne prevede l'applicabilita'  anche  quando  il  fatto
dalla  stessa  preveduto  risulta  commesso  per  cause  estranee  al
servizio e alla disciplina militare  o,  comunque,  non  afferenti  a
interessi delle Forze Armate,  che,  ad  avviso  di  questo  giudice,
avrebbe come risultante un quadro normativo coerente  con  la  scelta
operata dal legislatore relativamente ai reati di insubordinazione  e
abuso  di  autorita',  per   i   quali   e'   stato   effettuato   il
ridimensionamento dell'ambito applicativo con l'individuazione  delle
specifiche situazioni di fatto descritte  nell'art.  199  del  codice
penale militare  di  pace  (fatti  avvenuti  per  cause  estranee  al
servizio e alla disciplina, fuori dalla presenza di militari  riuniti
per servizio e da militare che non si trovi in servizio o a bordo  di
una nave o di un aeromobile militare). Tale intervento consentirebbe,
infatti,  ricorrendo  taluna  di   tali   circostanze   negativamente
indicate, di escludere in radice la rilevanza penale  delle  condotte
integranti ingiuria, anziche' comportare, come attualmente avviene in
base a quanto espressamente  previsto  dall'art.  199  codice  penale
militare  di  pace,  la  sola  inapplicabilita'   delle   norme   che
contemplano  e  puniscono  la  condotta  ingiuriosa,  sia  in   senso
ascendente che discendente, nell'ambito dei reati di insubordinazione
(articoli 189, comma 2, codice penale militare di pace) e di abuso di
autorita' (196, comma 2, codice penale militare di pace),  inquadrati
sotto il Titolo III «Dei reati contro la  disciplina  militare»,  con
conseguente   riconducibilita'   degli   stessi   nell'alveo    della
fattispecie incriminatrice di cui all'art. 226 codice penale militare
di pace. 
    Conclusivamente, verrebbe ripristinata la piena equiparazione del
trattamento riservato al cittadino in armi che si renda  protagonista
di una condotta ingiuriosa  nei  confronti  di  altro  militare,  per
ragioni  di  natura  esclusivamente  personale  e  privata  che   non
presentino  alcuna  attinenza  con  interessi  di  natura   militare,
rispetto al cittadino comune che tenga un comportamento  analogo  nei
confronti di un altro soggetto.